Palazzo della società Buonarroti-Carpaccio-Giotto, arch. Piero Portaluppi, 1926-1930
Gianfranco Pasquino (nato a Trana [To], nel 1942) si è laureato in Scienza politica con Norberto Bobbio e specializzato in Politica Comparata con Giovanni Sartori all’Istituto Cesare Alfieri di Firenze. Dal 1969 al 2012 ha insegnato Scienza politica all’Università di Bologna, dove, nel 2014, è stato nominato Professore Emerito; inoltre ha tenuto corsi alla “Cesare Alfieri” di Firenze, alla School of Advanced International Studies di Washington, D.C., alla Harvard Summer School, alla Universitá di California, Los Angeles. E’ stato Fellow di Christ Church e St Antony’s a Oxford ed é Life Fellow di Clare Hall, Cambridge. Ha ricoperto la carica di direttore della rivista “il Mulino” dal 1980 al 1984, tra il 2001 e il 2003 ha diretto la “Rivista Italiana di Scienza Politica” che aveva contribuito a fondare; nel triennio 2010-2013 è stato presidente della Società Italiana di Scienza Politica.
Gianfranco Pasquino vanta una produzione bibliografica sterminata – più di 90 titoli, per limitarci alle monografie e alle curatele –, un mare magnum di lavori che affrontano innumerevoli temi di ricerca all’interno del grande alveo della Scienza politica. Per questo motivo risulta davvero molto difficile, se non addirittura impossibile, selezionare qui i titoli maggiormente rappresentativi e in grado di illuminare a tutto tondo cinquant’anni di studi e di ricerche. Certamente significativo è l’ormai classico Dizionario di Politica firmato assieme a Norberto Bobbio e Nicola Matteucci e uscito per i tipi UTET nel 2004.
Scorrendo la produzione bibliografica di Pasquino si può notare che, a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta del ‘900, egli ha iniziato ad interessarsi al tema/problema della rappresentanza democratica in un contesto di progressiva crisi, all’epoca forse nella sua fase aurorale, dei sistemi politici nati alla fine del secondo conflitto mondiale. Del 1988, ad esempio, è il volume da lui curato Rappresentanza e democrazia (Laterza), mentre nel 1990 uscì Alla ricerca dello scettro perduto. Democrazia, sovranità, riforme (il Mulino). Negli anni successivi, il tema del funzionamento dei sistemi democratici e del loro difficile rapporto con la concreta rappresentanza popolare, anche in chiave storica, è tornato ciclicamente ad interessare lo studioso piemontese. Per fare solo alcuni esempi si potrebbero richiamare Parlamenti democratici (il Mulino, 2006), Strumenti della democrazia (il Mulino, 2007), Partiti, istituzioni, democrazie (il Mulino, 2014), Cittadini senza scettro. Le riforme sbagliate (Egea, 2015), fino al più recente Deficit democratici. Cosa manca ai sistemi politici, alle Istituzioni e ai leader (Egea, 2018). Pasquino, inoltre, ha studiato anche l’autoritarismo e le dittature militari in America Latina, dedicando a questi temi il volume Militari e potere in America latina (il Mulino, 1974).
Allo studioso piemontese, dunque, che ha il merito di essere non soltanto un accademico ma anche un intellettuale costantemente impegnato nel dibattito pubblico e che ha accompagnato alla ricerca la concretezza dell’attività politica, diventando senatore per tre legislature, abbiamo chiesto di riflettere sull’uso pubblico del fascismo nella società contemporanea, con particolare riferimento alle aporie – se di aporie si può parlare – della democrazia.
Federico Melotto – Una prima domanda, di ordine molto generale, è questa. Lei crede a nozioni o a modelli politici che valgano in ogni tempo e luogo, sia da un punto di vista concettuale, sia per quanto concerne la possibilità di applicarli a un concreto movimento o processo storico? Questa idea – ci pare – era presente nel pensiero politico classico, con nozioni quali aristocrazia, democrazia, monarchia. Da un certo momento in avanti si è potuto aggiungere alla triade classica il “socialismo”, ma secondo lei si può fare lo stesso col fascismo? Se la risposta fosse sì, lei pensa che la denominazione “fascismo” sarebbe adeguata per definire tale fenomeno; e quale rapporto avrebbe con altre denominazioni adoperate per fenomeni politici che non rientravano nella triade classica, quali cesarismo, bonapartismo, boulangerismo, populismo?
D’altra parte la questione potrebbe porsi anche in termini diversi, a partire da delimitazioni dell’uso della nozione di fascismo. Ovvero: anche se riteniamo che il fascismo non serva a definire qualsivoglia tradizione intellettuale, movimento o regime politico in ogni tempo e luogo, si può forse parlare di un fascismo in un quadro temporale e spaziale specifico, diciamo il secolo XX, l’Europa, il Mondo atlantico, il periodo tra le due guerre, etc.? A questo punto, se ritiene ci siamo, quali sarebbero per lei i limiti temporali e spaziali entro i quali collocare il “fascismo”. E sarebbe utile una distinzione sul piano delle idee politiche, tra movimenti fascisti e regimi fascisti? E tale distinzione implicherebbe periodizzazioni diverse? Infine, lei tenderebbe a considerare fascismo e populismo come due percorsi intellettuali differenti o come due tipi di movimenti politici diversi o, invece, pur ammettendo le differenze, a ricomprenderli dentro un’unica categoria, come si faceva un tempo, ad esempio nella tradizione marxista, attraverso l’applicazione ai due fenomeni dell’etichetta di “bonapartismo”?
Gianfranco Pasquino – Troppe domande in una. Distinguiamo. Il genus è autoritarismo che comprende molte species che già lei cita: bonapartismo, cesarismo, aggiungerei, governi militari. Il fascismo, nella versione italiana, è una di queste specie, storicamente la più importante. Altre sono il salazarismo e il franchismo. Hanno molte peculiarità che vengono dalla storia di ciascuno dei sistemi politici, dal loro livello di sviluppo, dalla loro struttura di classe, dalle istituzioni esistenti. Nessuno di questi autoritarismi può riprodursi e riapparire con modalità simili a quelle del passato. Quell’acqua torbida è passata sotto quei ponti e non tornerà mai indietro. Vale anche per l’Italia e il suo fascismo. Incidentalmente, nessuno dei tre casi ai quali ho accennato merita di essere definito “populismo”. L’appello al popolo c’è, eccome, e il popolo italiano, portoghese, spagnolo ha risposto in maniera significativa e positiva, forse anche maggioritaria. Scrisse Renzo De Felice che dopo il 1936, e fino alla sua caduta, per il fascismo quelli furono “gli anni del consenso”. Credo che valga anche per molti regimi autoritari. Certo, fu un consenso prevalentemente passivo, di accettazione, ma anche le democrazie godono spesso di un consenso che è non molto dissimile dal conformismo.
La maggior parte dei regimi autoritari non sono affatto inclini a mobilitare il “loro” consenso, il loro popolo. Anzi, smobilitano, per esempio, dopo una guerra civile, tentano di imporre una qualche quiete e di isolare/emarginare i rimanenti oppositori. Sembrò che il fascismo italiano volesse, invece, lanciare un attacco in grande stile, è la fase che De Felice ha battezzato “fascismo movimento”: Mussolini in camicia nera, stivaloni, fez. Ma, e questo è un punto cruciale, non poche istituzioni resistettero: la Monarchia non scomparve mai del tutto, le Forze Armate rimasero sabaude, la burocrazia proseguì nel suo tran tran con qualche adeguamento, la Chiesa cattolica reagì. Ottenne il Concordato e i Patti lateranensi e, in cambio della rinuncia ad attività politiche esplicite ebbe mano libera in tutti i settori che chiameremmo assistenziali. A fare politica, comunque, ci pensò e ci riuscì alla grande la FUCI (Federazione Universitaria Cattolici Italiani), da dove sarebbe venuta la miglior classe politica democristiana. Mussolini e il Partito Nazionale Fascista si misero al centro della configurazione autoritaria che, in Italia, comprendeva anche i declinanti agrari della Valle Padana (film Novecento) e gli emergenti industriali. Il fascismo divenne regime e Mussolini indossò il frac e si mise la lobbia.
Altrove, Spagna e Portogallo, questo è il contributo di enorme rilievo del grande studioso spagnolo Juan Linz, la configurazione autoritaria non fu dissimile: Forze Armate, Chiesa, burocrazia, proprietari terrieri. Gli aggettivi usati da Linz sono straordinariamente pertinenti: pluralismo limitato, non competitivo (ognuno si ritagliava e difendeva la sua sfera di interessi), non responsabile (non doveva rispondere a nessuna base). Quei regimi autoritari di lunga durata nacquero in contesti economico-sociali alquanto più arretrati dell’Italia. Né il Portogallo né la Spagna avevano avuto una esperienza democratica precedente in qualche modo paragonabile alla democrazia giolittiana, limitata, sì, ma reale, competitiva, multipartitica. Non ebbero nessuna fase “di movimento”, ovvero mirata ad una profonda trasformazione del sistema socio-politico. Entrambi si posero il compito di rallentare i cambiamenti sociali e economici del paese, che avrebbero favorito la mobilitazione degli oppositori. Vi riuscirono per decenni. Entrambi, infine, si tennero, pur diversamente, lontani dalla Seconda Guerra mondiale. Oggi, gli autoritarismi contemporanei sono impossibili senza il sostegno più o meno visibile delle Forze Armate. Ovunque, esiste un regime autoritario, le Forze Armate hanno un ruolo politico, più o meno esplicito, ma sempre rilevante, sostanzialmente decisivo.
Federico Melotto – Ci pare che tra gli storici del fascismo si preferisca stabilire delle precise delimitazioni. In questo senso si potrebbe parlare, relativamente al fascismo di epoche precise o addirittura di “ritorni”. Ora: se si parlasse di epoche, questo implicherebbe anche una certa idea dei fascismi come “parentesi”. Si può continuare a pensarla in questo modo. Ma se si parlasse invece di ritorni? Devono darsi determinate condizioni “oggettive” (politiche, economiche etc.) perché questo ritorno si produca o invece sarebbe qualcosa di legato a comportamenti tenuti o mancati, ovvero il ritorno sarebbe dovuto al fatto che le società democratiche non hanno saputo fare i conti con il fascismo a tempo debito? Che cosa, in sostanza, ne permetterebbe il ritorno?
Gianfranco Pasquino – Vorrei riconoscere un grande merito al fascismo italiano, quello di avere sollecitato interpretazioni di grande interesse relativamente alla sua comparsa. De Felice le ha efficacemente raccolte e commentate da par suo. Sicuramente, il fascismo non fu, come disse Croce e come concordò Luigi Einaudi, una parentesi. La storia d’Italia nel 1945 non ricomincia da dov’era rimasta nel 1922. Più vicina alla mia comprensione del fenomeno sta l’interpretazione proposta da Piero Gobetti e accettata dai fratelli Rosselli, da Giustizia e Libertà, dal Partito d’Azione: autobiografia della nazione. Preferirei, però, esprimere il concetto in maniera leggermente, ma significativamente, diversa. Non la autobiografia della nazione, ma uno dei possibili esiti dello sviluppo della nazione come era venuta configurandosi dopo il 1861. Erano possibili altri sviluppi se, per esempio, l’Italia non avesse aggredito la Libia e non fosse entrata nella Prima Guerra Mondiale. Se avesse reagito alla sfida della violenza fascista. Ciascuna scelta, fatta e non fatta, bloccò altre possibilità. Il fascismo stava con i piedi ben dentro l’autobiografia della nazione, ma questa autobiografia conteneva altri elementi che avrebbero potuto portare ad un allargamento della limitata democrazia giolittiana. Fu inadeguata, come scrisse Palmiro Togliatti, la comprensione della struttura e dei conflitti di classe, delle debolezze dei capitalisti che, quindi, si appoggiarono al fascismo? Oppure, come suggerì, a mio parere, in maniera acuta e originale, il sociologo Gino Germani (antifascista esule in Argentina e grande studioso del peronismo), alle origini del fascismo sta la piccola borghesia italiana che si sentì minacciata dalla ascesa della classe operaia e consegnò il suo destino alle squadracce fasciste. Fu, dunque, il panico di status la motivazione decisiva: proteggersi contro lo scivolamento all’indietro nella scala sociale. Oggi, azzarderei che quella piccola borghesia si sente, forse, ascoltata, se non addirittura tutelata dai populisti che annunciano di volerla mettere al primo posto, sopra tutti e tutto.
Federico Melotto – Ancora sul fascismo. Sicuramente la delimitazione non può essere soltanto temporale e spaziale, deve essere anche categoriale. E a tale riguardo, secondo lei, quali sarebbero i caratteri che distinguono il fascismo? Le proponiamo qui sotto un elenco, certamente non completo, di tratti distintivi “classici”, al quale lei può attingere o fare delle aggiunte: la violenza, il razzismo, l’ideologia, lo Stato totalitario (esaltazione dello Stato, identificazione partito-Stato, etc.), il modo di concepire le masse, il rapporto con il passato, il disprezzo per la democrazia rappresentativa, il controllo delle coscienze, il peso del mito, l’importanza del capo (concepito come uomo nuovo), la contrapposizione tra vecchio e nuovo, il primato della nazione. Partendo da questi tratti distintivi lei concorda con l’idea del fascismo come una delle forme possibili della modernità o preferisce l’etichetta di fenomeno politico reazionario? Al di là di come si definisce il fascismo e della periodizzazione che si sceglie (o meno), il fenomeno va pensato in una dimensione nazionale o internazionale? La discussione era già presente tra i contemporanei, quando emerse il fascismo. Il problema sicuramente può essere collegato alla questione del rapporto tra fascismo e nazionalismo ma anche, inversamente, all’idea che il fenomeno fascista sia caratteristico di una determinata epoca storica. In ogni caso, lei ritiene più produttivo intellettualmente pensarlo in un modo o nell’altro?
Gianfranco Pasquino – C’è assoluto bisogno di un capo con il quale le masse si identifichino (il culto del Duce), oppure che considerino una specie di figura paterna che mantiene l’ordine. Il fascismo non ha ideologia. Esibisce qualche brandello di cultura politica nazionalista e spiritualista. Salazarismo e Franchismo ebbero mentalità, come evidenzia splendidamente, ancora una volta, Linz: rispettivamente, Famiglia, Fatima e Football, e Dio, Patria e Famiglia. Niente a che vedere con i totalitarismi, nei quali il leader è capo di un partito solido, ramificato, ideologico: che sia nazismo oppure comunismo.
No, il fascismo non fu modernità, anche se ebbe tratti modernizzatori. Non fu neppure semplice reazione, ritorno al passato. Fu un tentativo riuscito, anche in Portogallo e in Spagna, di rallentare il ritmo del cambiamento. Ebbe successo, da questo punto di vista. Ma quando il cambiamento per fattori esogeni fece irruzione nel sistema politico dei fascismi, inevitabilmente iniziò la transizione. E indietro, lo ripeto, non si torna. Comunque, nessun sistema politico, già più o meno fascista, ha finora effettuato qualcosa di simile ad un ritorno.
Federico Melotto – A suo parere oggi si può parlare di un vero e proprio ritorno del fascismo? Se sì, possiamo parlare di neofascismo, postfascismo o di cos’altro? O invece lei preferirebbe adoperare il termine destre reazionarie, o quale altro eventualmente? Se si ammette che il fascismo storico ha una ideologia, o un insieme di credenze che lo identifica, le nuove destre hanno un’ideologia o meno? Se sì, quale? Sarebbe interessante (per la nostra rivista) capire in particolare la questione del rapporto con il passato e il futuro. In Francia e in Italia si sono sviluppati oltre al lepenismo e alla Lega, due fenomeni politici e sociali forse per certi versi simili e per molti altri diversi: i “gilet gialli” e i Cinque stelle. Che definizione darebbe delle due realtà? Come vanno collegate, se vanno collegate, con le altre forme politiche delle nuove destre?
Gianfranco Pasquino – No, come ho già scritto, non credo a “ritorni” del fascismo e dei fascisti. Potrei dire che in Italia il fascismo non è mai scomparso e che i fascisti hanno sempre avuto modo di fare politica. Certo, alcuni di loro si richiamano al passato, ma con questo solo richiamo non fanno molta strada. Debbono identificare nuovi nemici, ad esempio, i migranti, la xenofobia non tramonta mai, i diversi, neppure l’omofobia tramonta, e esaltare la famiglia tradizionale e la nazione, qui arriva il nazionalismo in parte riverniciato come sovranismo. I neo-fascisti fanno grande fatica a delineare un qualche futuro e, anzi, giocano sulla paura dei loro connazionali per ottenerne il consenso e il sostegno. Però, attenzione a non collocare in una borsa analitica troppo capiente animali molto diversi fra loro. No, il Movimento Cinque Stelle, mai violento, non è in nessun modo assimilabile ai gilet gialli. Raccoglie insoddisfazione, voglia di cambiamento, persino richieste di trasformazioni della e nella democrazia. Confuse, pasticcione, ignoranti, le Cinque Stelle affondano in un humus culturale di antipolitica che in Italia ha una lunga storia, in nessun modo simile alle esplosioni di protesta che, invece, stanno nella storia francese, anche perché la mediazione in Francia non è la forma preferita di fare politica e i mediatori non hanno strumenti all’altezza e comunque, preferiscono l’azione alla mediazione. Le “destre” possono essere combattute e emarginate (non sarà mai possibile sconfiggerle definitivamente), cogliendone le specificità e denunciandone le modalità d’azione, ma soprattutto comprendendone le motivazioni e dando loro una risposta in termini culturali e emozionali, vale a dire, esplorando i sentimenti che ne stanno a fondamento. L’invettiva politica e sociale, anche se elaborata in maniera efficace, non è mai sufficiente. Anzi, può risultare controproducente.
Federico Melotto – Qual è secondo lei lo stato di salute della democrazia e dei valori che essa rappresenta in Occidente?
Gianfranco Pasquino – Questa domanda richiede un libro per risposta (ne ho scritto variamente, da ultimo in Deficit democratici (Università Bocconi Edizioni 2018). La mia tesi è semplice, sostanzialmente sartoriana (G. Sartori, The Theory of Democracy Revisited, Chatham House 1987). La democrazia ideale, quella che vorremmo, istituzioni e diritti che garantiscano la libertà e che offrano ai cittadini il potere di scegliere rappresentanti e governanti, è viva, vegeta e vivace. Ovunque nel mondo, dal Venezuela a Hong Kong, da Mosca a Ankara, gli oppositori, sono centinaia di milioni, dei regimi autoritari combattono le loro battaglie in nome della democrazia. Vanno in prigione e in esilio, vengono torturati e spesso anche uccisi perché cercano democrazia. Quindi, non esiste la crisi della democrazia. Ovunque nel mondo, le democrazie realmente esistenti, un po’ tutte, ma alcune più di altre, mostrano delle criticità. Volendo si potrebbe sostenere che esistono crisi – meglio sarebbe usare le parole inconvenienti, problemi, sfide, difficoltà di funzionamento – nelle democrazie. Non mi esibirò nella abituale ripetizione della fin troppo famosa, ma pregnante, frase di Churchill: la democrazia come il meno peggiore dei regimi politici. Vero, ma si possono aggiungere alcune altre imitabili qualità: le teste non si tagliano, ma si contano e le democrazie sono gli unici sistemi politici dotati di capacità di apprendimento, di flessibilità, di resilienza. Comunque, l’onere della/e crisi pesa prevalentemente sulle spalle della cittadinanza. Se gli uomini e le donne vogliono rinunciare alla libertà, meritano di perderla, ma la responsabilità non è della democrazia. Se cittadini e cittadine non hanno interesse per la politica, non acquisiscono informazioni sulla politica, non partecipano alla politica, altri lo faranno per loro a loro scapito. Dobbiamo essere assolutamente esigenti con i nostri concittadini. Con le loro carenze di cultura e di impegno, con il loro egoismo, rendono la nostra democrazia debole, esposta, inadeguata. Ma l’ideale rimane, alto e insostituibile. Infatti, proprio perché abbiamo e condividiamo quell’ideale, siamo giustamente preoccupati quando fanno la loro comparsa sistemi politici nei quali i governanti più o meno gradualmente comprimono e erodono i diritti dei cittadini, manipolano le istituzioni, in particolare, il Parlamento e la Corte costituzionale, evadono il giudizio sulle loro responsabilità, la loro accountability, rendendo impossibile alle opposizioni di fare politica e di vincere le elezioni. In questo modo, quei sistemi politici fuoriescono dalla democrazia. No, senza liberalismo ovvero “diritti più separazione delle istituzioni e checks and balances” (freni e contrappesi) non esiste nessuna democraticità. Semplicemente e sicuramente, le democrazie illiberali non sono democrazie. L’affermazione dell’autocrate Putin, non sufficientemente noto come raffinato politologo, sulla fine delle democrazie liberali è, alla luce dei numeri esistenti e delle lotte in corso in non pochi sistemi politici, ad esempio, Turchia e Venezuela, per la democratizzazione, alquanto prematura. Sia chiaro che la Russia di Putin non soltanto non ha nulla a che vedere con il liberalismo, ma non può essere collocata nel novero delle democrazie. La democrazia autoritaria non è democrazia. Dire democratura, oltre che un errore, è una stupidaggine. Con sense of humour, ma anche con capacità analitica, sono i latino-americani ad avere distinto fra dictablanda --autoritarismo non troppo oppressivo e repressivo poiché non ne aveva i mezzi, e democradura --situazione nella quale i neo-governanti, ancorché democratici, ma non “consolidati”, usano la forza in maniera rigida per timore di perdere il potere politico. Anche in questo caso, è molto opportuno che i termini siano usati in maniera corretta che è il modo migliore per produrre analisi efficaci e eventualmente formulare previsioni con un minimo di fondamento.
Federico Melotto – Come intende il ruolo dello storico o dello scienziato sociale nella società? E’ opportuno che si confronti con il dibattito politico/culturale del suo tempo? Se sì, come lo dovrebbe fare, con quali strumenti e quale può essere il suo specifico apporto?
Gianfranco Pasquino – Anche in questo caso, mi dichiaro pienamente e consapevolmente sartoriano. La lezione di Sartori prende le mosse dalla necessità di rispondere al quesito Knowledge for what? Che senso ha fare della modellistica se quei modelli non servono a risolvere i problemi che la vita politica, nei regimi democratici tanto quanto nei regimi autoritari, pone a quegli uomini e a quelle donne? Che senso ha imparare come funzionano le istituzioni, incentivi e opportunità, premi e punizioni, come si costruiscono i partiti, come si fanno (disfano e trasformano) i governi, se non applichiamo le conoscenze che abbiamo acquisito per i fini che vogliamo conseguire? Comunque, l’applicabilità delle conoscenze della scienza politica, delle generalizzazioni e delle teorie probabilistiche: “se esistono a, b, c allora è molto probabile che ne conseguano x, y, z”, è l’unico modo per valutarne la validità e, di conseguenza, procedere anche a rivederle, riformularle, ristrutturarle. Ho trattato più ampiamente della applicabilità della scienza politica nel cap. 12 del mio libro Bobbio e Sartori. Capire e cambiare la politica (Bocconi Editore 2019). Alcuni dei grandi politologi statunitensi, ad esempio, Samuel P. Huntington e Robert D. Putnam, hanno operato in questo senso, il secondo sottolineando il compito “educativo” che la scienza politica può svolgere per i cittadini. Nei loro importantissimi studi sulla partecipazione politica, Sidney Verba e i suoi numerosi eccellenti collaboratori hanno messo in rilievo come la “voce” dei cittadini USA non sia affatto eguale per tutti e come possa e debba essere rafforzata in chiave effettivamente democratica. Quanto a Sartori, i suoi contributi in materia di leggi elettorali e di sistemi di partito contengono insegnamenti operativi di notevole e duratura importanza. Naturalmente, soltanto chi crede nell’applicabilità della scienza politica può confrontarsi efficacemente e incisivamente con il dibattito politico contemporaneo, chiarire i concetti, valutare e criticare le proposte, suggerire le alternative. Non è detto che una buona scienza politica riesca sempre ad avere un impatto positivo su quel dibattito. Tuttavia, chi rinuncia ad operare in questo senso cade automaticamente e meritatamente nell’irrilevanza. Peggio, farà della scienza politica di bassa qualità, inutile.
Commando Carabinieri Pastrengo, arch. Luigi Secchi, 1936-1937. Altorilievi di Giuseppe Scavini