(Aperture. Punti di vista a tema)
Mostra al MAXXI di Roma
(16 marzo – 9 maggio 2018)
Perché un museo di arte contemporanea del XXI secolo si preoccupa di organizzare una mostra che riguarda un fatto storico piuttosto controverso di quaranta anni fa1? Si tratta solo di una circostanza occasionale, dovuta alla celebrazione quarantennale del fatto stesso, oppure c’è qualcosa di più? E cosa c’entra l’arte con la storia politica italiana degli anni ’70?
Troppo facile ridursi all’intenzione cerimoniale, anche se probabilmente la spinta iniziale è stata proprio quella. Ma come ogni spinta, per qualsiasi forza fisica, corrisponde a una reazione a catena di controspinte e dinamiche che ne susseguono, con forze in gioco che entrano prepotenti perché nessuna forza in natura (e in cultura) è mai isolata, così ciò che ne è venuto fuori da quella spinta cerimoniale è qualcosa di completamente diverso. Il museo, luogo per eccellenza di storia e cultura, ha voluto fare i conti con la storia, ma la storia si è impossessata di lui ed ha reagito a modo suo, rivelando ben altre cose, fra cui un inquietante e ingombrante presente.
Ma procediamo per gradi e vediamo innanzitutto di cosa si tratta.
In occasione del quarantesimo anniversario del rapimento del politico italiano Aldo Moro a opera delle Brigate Rosse (il 16 marzo 1978), il museo MAXXI di Roma ha coinvolto tre artisti per celebrare quanto è accaduto, accompagnando le loro opere con proiezioni, spettacoli teatrali, incontri e discussioni pubbliche animate da politici, giornalisti, uomini di cultura e artisti per tutto il periodo del sequestro fino alla sua tragica conclusione (55 giorni, dal 16 marzo al 9 maggio).
L’opera esposta con maggiore evidenza è stata quella dal titolo 3,24 mq di Francesco Arena, che riproduce in dimensioni reali, sebbene con del legno per le pareti, lo spazio fisico in cui Moro fu tenuto prigioniero, con tutti i dettagli e le suppellettili utilizzate. Rossella Biscotti, invece, ha presentato una performance ed esposto una sua installazione del 2010, Il Processo, rivista e modificata nel corso degli anni, e che riproduce – o meglio si riferisce – all’aula bunker utilizzata per una serie di processi “politici” e “giudiziari” che hanno suscitato molto scalpore in Italia, fra i quali appunto quello per il rapimento e l’assassinio dello statista italiano (anche se l’opera era nata per richiamare un altro processo, assai diverso: quello detto del 7 aprile, contro centinaia di militanti del gruppo di estrema sinistra “Autonomia Operaia” accusati di concorso e partecipazione a banda armata e quindi di terrorismo). Infine Flavio Favelli ha esposto J&B e Varietà, due opere figurative che rappresentano/riproducono immagini che si riferiscono alla vicenda presentandone anche polemicamente certi aspetti paradossali: la riproduzione a pastelli di una parte della prima pagina del quotidiano “La Repubblica” del 16 marzo 1978 con il titolo a tutta pagina del rapimento vicino alla pubblicità della marca di whisky, e la riproduzione di 3 francobolli emessi in occasione del venticinquesimo anniversario della morte di Moro che presentavano degli errori di stampa.
Fin qui niente di male, naturalmente. Solo che la presentazione di opere in riferimento a un fatto storico preciso non è mai casuale, e nessuno dovrebbe pensare che la scelta di un’operazione del genere sia superficiale. Che lo si voglia o meno – e quindi che vi si sia pensato o meno da parte dei curatori e della direzione del museo – ogni operazione è già una selezione e una presa di posizione. Il fatto stesso che un museo intervenga su una situazione che riguarda il passato e di cui si occupano gli storici non deve passare inosservata, perché indica la consapevolezza che fra espressione artistica, storia e realtà vi sono connessioni che continuano a intrecciarsi nel corso del tempo, come i linguaggi e le società che vi si esprimono, la politica che ne risulta e le ideologie che ne trapelano.
Tuttavia già solo la scelta cerimoniale è un’interpretazione – tutta storica – del rapimento inteso come fatto, evento, situazione circoscrivibile e isolabile da un resto, da un insieme complesso e difficile che erano quegli anni ’70. 55 giorni, con un inizio e una fine, di cui il museo ha voluto riproporre la sequenza temporale, come se quella temporalità fosse isolabile dalle indefinite altre che vi si sono all’epoca intrecciate, cui era collegata, di cui era uno degli sviluppi e da cui sono dipartite altre linee temporali che senza di lei non ci sarebbero state. Già qui sta una scelta arbitraria – perfettamente legittima, intendiamoci – che tuttavia due delle tre opere esposte hanno messo in discussione.
Francesco Arena, 3,24 mq, 2004
Una gabbia di legno che non è immaginaria suscita orrore, compassione, raccapriccio e tenerezza. L’umano degradato e rinchiuso, esposto al voyeurismo della folla. Arena mostra qualcosa che non sarebbe stato possibile vedere, che non doveva essere visto, in cui chi vi era rinchiuso non doveva essere visto che da pochissime persone selezionate. Esposto voyeuristicamente al pubblico, il luogo segreto della segregazione diventa qualcosa di completamente diverso. Se ne perde la valenza politica e storica. Quante gabbie simili ci sono e ci sono state? Quanti umani degradati e sofferenti? In quest’opera non c’è la politica, non c’è la storia, non ci sono le situazioni e non c’è neppure la realtà: l’artista in questo caso ha isolato un oggetto esponendolo come un ready made, ma ha perso e fatto perdere le valenze della storia e della politica, che non sono meramente oggettuali, ma relazionali: sono connessioni e pensieri, situazioni e reazioni. Come scrive Clemantine Mararyia nel suo romanzo-testimonianza sui tremendi massacri in Ruanda, The Girl Who Smiled Beads, per fare una storia e per dar senso alla storia occorre ben più che l’elenco dei fatti accaduti o delle esperienze vissute, raccolte in concetti generali come per esempio quello di “genocidio”: occorre il respiro più ampio della vita, i dettagli che non appartengono all’orrore e l’infinito schiacciante e mai definitivamente concettualizzabile dei dolori individuali, ognuno con la sua straziante particolarità irriducibile (ma anche gli infiniti particolari delle resistenze, delle piccole felicità, delle minime sopravvivenze anche nelle situazioni più difficili). La complessità di una storia – e della storia – è inesauribile, e non può ridursi a una scatola dove i visitatori possano metter dentro la loro compassione e i loro ricordi.
La gabbia di legno mostra un’assenza, l’assenza presente dell’uomo che vi è stato rinchiuso: ossimoro che spinge ben al di là delle considerazioni politiche, perché la politica stessa ne vive, visto che essendo volta alla vita dell’uomo in collettività fin troppo spesso mortifica l’uomo, soprattutto quando pretende di migliorare le condizioni di vita dell’essere umano per mezzo della sua eliminazione, segregazione, selezione o esclusione. Dov’è l’uomo di quella gabbia? E dove gli altri? Dove i carnefici, i complici, i colleghi di partito che hanno fatto finta di niente, la gente comune che abitava lì accanto, i giovani nelle piazze, i parenti affranti, i giornalisti…
Ogni artista compie una scelta, ma l’allestimento in un museo è un insieme di scelte che implica non solo l’artista, ma il curatore, la direzione del museo, le interpretazioni che vi si accavallano, il pubblico che vede e interpreta. Sembra che in questo caso sia venuta a mancare una regola che aveva proposto il drammaturgo Bertolt Brecht: ogni mostrare non è mai semplice, ma implica una dimostrazione che lo regola e lo guida. Guai a nascondersi dietro la finzione di far vedere semplicemente qualcosa, perché è impossibile. In arte l’ostensione non esiste. “Montrez que vous montrez! Quel es multiples attitudes / que vous montrez en montrant comment les hommes se comportent / ne vous fassent pas oublier l’attitude du démonstrateur”2.
L’opera sicuramente più storicamente documentata e consistente è quella di Biscotti. Ma si tratta dell’opera che ha apparentemente meno a che fare con la vicenda di Aldo Moro, nata in tutt’altra occasione e con tutt’altra intenzione. Qui il riferimento storico-memoriale è molto esplicito perché il lavoro rielabora frammenti e selezioni di una situazione che è passata, ma implica ancora il presente.
Rossella Biscotti, Il Processo, 2010
Biscotti ci mostra dei calchi in cemento che riproducono alcune parti dell’aula-bunker dove si sono svolti alcuni importanti processi per terrorismo a Roma. L’aula, che era stata costruita negli anni Trenta da Luigi Moretti e destinata all’Accademia della scherma (era chiamata Casa delle armi) è stata riadattata ad aula processuale iperprotetta all’inizio degli anni Ottanta. Biscotti ne ha scelto dei frammenti significativi (alcuni gradini, pavimenti, scranni) dove il cemento ricorda direttamente la struttura del bunker che serviva a proteggere la giustizia dai pericoli. Sono frammenti di luoghi, come frammentaria è la storia alla quale si riferiscono e che i processi non hanno risolto. Fra queste “sculture” girano in audio le voci del processo, anch’esse selezionate con cura dall’artista. Sono voci di giudici e imputati che sembrano parlare lingue differenti, ognuna con le sue ragioni. Ascoltarle in quell’ambiente freddo e minimalista significa non capire niente, o meglio capire che le cose sono talmente complesse che la pretesa di giudicare in maniera definitiva qualcosa è impossibile. Per questo la scelta di calchi parziali dell’aula è una scelta in un certo senso archeologica, dove l’artista si sostituisce alla natura del tempo e opera al posto suo, lasciando solo qualcosa di ciò che era. L’apparenza casuale delle scelte però non deve ingannare: l’idea non è infatti quella di offrire alla visione frammenti volti a una possibile ricostruzione dell’insieme, ma insistere sul carattere frammentario della storia che si vuole far attraversare da parte degli spettatori.
La presa di posizione di Biscotti è insomma politica, storica e artistica al tempo stesso. Il “processo” (che dà il titolo a questa sua opera) non era quello per il rapimento di Aldo Moro, le voci dei giudici e degli imputati non avevano a che fare con lo statista italiano, tuttavia la storia mescola le carte e accavalla i tempi di cui vuole riempire le lacune e le incertezze. Scegliere certi frammenti e certe voci è inevitabile, ma la presa di posizione della Biscotti è quella che rifiuta la ricomposizione, la possibilità di stabilire un’interpretazione univoca dei fatti e di proporne una coerenza. Come artista, ciò che vuole suscitare e su cui richiama alla riflessione è la molteplicità dei linguaggi che s’intrecciano nei luoghi, dove questi luoghi stessi non sono unitari e coerenti. C’è qualcosa che la storiografia non ha ancora risolto e che la giurisprudenza pretende di aver giudicato lasciando aperte ancora incolmabili lacune: l’artista lavora su queste lacune non per riempirle, ma per scavarle e portarle alla luce.
C’è da chiedersi come e perché il museo abbia voluto accostare l’opera della Biscotti con quella di Arena: se per indicare un accordo con la tesi di uno stretto rapporto fra le organizzazioni dell’estrema sinistra italiana con i gruppi terroristici e le Brigate Rosse che hanno rapito e ucciso Moro, oppure per indicare l’irrisolvibile complicazione di quegli anni nel groviglio simbolicamente riassunto in quei 55 giorni. I film che hanno accompagnato la mostra del MAXXI, insieme alle conferenze e agli incontri organizzati, non aiutano a risolvere il dubbio, anche se lasciano pensare più alla prima che alla seconda delle ipotesi.
Forse inconsapevolmente, però, anche la seconda ipotesi resta viva sia per la presenza dell’opera della Biscotti, che per quella di Favelli. E questo è storicamente interessante: come possano le opere adeguarsi ed essere adeguate o plasmate in funzione degli interessi del momento. E’ un vecchio problema della storia dell’arte: ci sono momenti storici precisi, o almeno circoscritti e circostanziati, in cui nascono delle opere, le quali poi se ne distaccano e cominciano a viaggiare nel tempo – un viaggio che chiamiamo durata, nel senso che le opere continuano a restare efficaci anche quando le circostanze e i tempi sono mutati, persino quando i tempi sono cancellati o dimenticati, o talmente mutati che l’opera vi si riferisce solo con la grande difficoltà dell’esegesi e dell’interpretazione.
Nelle sue opere Flavio Favelli ha esposto questo mutamento. Una variazione che non appartiene soltanto al tempo nel suo corso, ma anche al presente e alle differenti linee che vi si intrecciano sincronicamente. J&B è un disegno su fondo nero che riproduce un frammento della prima pagina del quotidiano “La Repubblica” con la notizia in caratteri cubitali del rapimento di Moro, dove a colori l’artista ha evidenziato la machette accanto alla testata, con la pubblicità della marca di whisky.
Flavio Favelli, J&B
Anche qui la selezione del frammento vuol dire qualcosa. Non si tratta però di un lavoro archeologico, quanto piuttosto di una specie di ispezione nel dettaglio, volto a mostrare l’intreccio inevitabile e permanente fra notizia e mercato. In questo dettaglio, che sceglie apposta il bianco su nero delle informazioni rispetto al colore della pubblicità, c’è il messaggio dell’artista, la sua presa di posizione storico-politica e critica. L’attacco al cuore dello Stato da parte delle Brigate rosse era anche un attacco contro l’imperialismo delle multinazionali, la legge pervasiva del profitto sempre e comunque. Il giornale che dà la notizia non rinuncia alla pubblicità. La quotidianità imperante dell’economia non arretra di fronte alla tragedia, qualsiasi essa sia. La scelta dell’artista vuole mostrare questa contraddizione, o forse questo intreccio inevitabile di prospettive diverse in un medesimo presente.
Un presente che spesso è complicato e lacunoso, o fuori luogo, spostato. Varietà è l’opera che mostra questo spostamento, come se non fosse possibile mettere perfettamente a fuoco quello che è successo. Si tratta della riproduzione molto ingrandita di tre francobolli emessi in occasione del 25° anniversario della morte di Moro, con evidenti errori di stampa. Il primo francobollo è decentrato e manca della parte superiore, il secondo è sdoppiato nell’immagine e anche lui molto decentrato, il terzo ha l’immagine della testa di Moro sdoppiata e sfocata. L’errore di stampa viene riferito alla difficoltà di fare i conti col passato, di cui non riusciamo ad avere una visione completa e chiara. Questo il messaggio di Favelli.
Flavio Favelli, Varietà
Non bisogna trascurare però il resto delle implicazioni di questa scelta. Il francobollo è una tassa dello Stato sulla comunicazione epistolare e il suo valore economico ci riporta alla prima immagine, la pubblicità del whisky. Non si sfugge all’economia, anche quando l’intenzione è celebrativa. D’altra parte, anche l’accesso al MAXXI è a pagamento e rientra nella logica del profitto capitalistico.
Ma gli errori di stampa fanno pensare anche agli errori di stato, alla difficoltà di fare i conti col passato e alla possibilità di non averne una visione distinta. Qui il riferimento è all’opera di Biscotti: lo Stato non riesce a precisare la sua stessa posizione, anche se pretende di farlo. L’intenzione celebrativa fallisce, come se il desiderio di regolare il proprio passato fosse inevitabilmente soggetto a sfocature e sdoppiamenti. L’errore di stampa diventa un simbolo su cui lo Stato non può esercitare un controllo assoluto. Nella storia ci sono errori che non si possono cancellare, anche se di dettaglio. E’ su questi che l’artista s’impegna e a cui vuole dichiararsi sensibile. E’ un invito a riflettere sugli errori che inevitabilmente si compiono, passaggio inevitabile attraverso il quale collassa ogni ideale totalitario.
Ma cosa succede quando l’errore viene esposto, come fa Favelli con i francobolli? L’errore esposto acquisisce una sua compostezza e in quanto opera lavora su un doppio binario: da una parte resta errore e richiama alla sua consistenza; dall’altra parte però si ricompone in opera d’arte, perde la sua qualità di errore per riconfigurarsi in altra maniera. Diventa documento di se stesso, perfettamente integro e pieno di senso. Noi che lo osserviamo come opera oscilliamo in continuazione fra i due aspetti e dobbiamo fare un certo sforzo per scegliere quale pensare.
L’artista prende posizione senza invitare a seguirlo: propone una lettura, richiama un’attenzione al dettaglio e allo sbaglio, offre una lettura personale ma non vuole – o non dovrebbe volere – insegnare niente.
E’ molto frequente che l’arte si riferisca alla storia, alla storia passata o a quella recente, contemporanea, intesa però propriamente come storia e non come cronaca. L’artista infatti appartiene interamente al suo tempo, non se ne sente e non se ne vuole estraneo; eppure lo vive, l’osserva e lo interpreta da una posizione particolare, quella dell’arte appunto, che vuole in qualche modo proporre uno sguardo tangente rispetto al reale per come viene abitualmente percepito e vissuto. E’ uno sguardo sensibile a certi aspetti, capace di ricostruire il reale riconfigurandone la complessità per mostrarlo e discuterlo. A volte ci riesce, altre volte no.
In un mondo complesso e pieno di errori le cose non finiscono mai. Il MAXXI ha proposto una lettura, ma la lettura possibile ha travalicato ogni limite entrando in relazione con la proposta. La storia è traversata da tutte queste linee reali e possibili, letture diverse, prese di posizione, interpretazioni e giudizi, ritorni, revisioni, crepe e interstizi. L’arte non ne è esente anche lei. Nel labirinto di cui tesse via via il percorso rischiamo sempre di rimanerne prigionieri.
Non a caso, quindi, l’ultima manifestazione che ha accompagnato la mostra è stato uno spettacolo teatrale di Luca Archibugi intitolato “Labirinto Moro”: un reading dove prigioniero e carcerieri si trovavano chiusi nella stessa situazione dalla quale non potevano uscire, mentre la vita di tutti i giorni scorreva normale accanto ad essa. Forse più che a un labirinto questa storia che non è una sola storia somiglia di più a un groviglio: chi la guarda dalla nostra distanza di quaranta anni ne riconosce alcuni fili, che però perde all’interno della matassa. Non sappiamo se è possibile liberare tutti i percorsi, se siamo noi stessi un percorso e se facciamo parte dello stesso groviglio, di un suo nodo particolare, o se ne componiamo una variante.
E’ riuscita l’operazione? Nessuno lo sa. Le voci sono molte, occorre mettersi in ascolto e scegliere quali seguire. La proposta del MAXXI è stato un filo che ha voluto girare intorno ad altri fili presenti, formare altri nodi e proporre un itinerario. I visitatori non erano là per cercare una risposta o per districarsi ma per sapere che non si sfugge al groviglio dei tempi e dei luoghi. E’ quindi perfettamente legittimo che un museo d’arte contemporanea intervenga su un evento storico e provi ad aprire uno sguardo: forse un confronto più serrato con gli storici contemporaneisti, oltre ai giornalisti, ai politici e agli artisti invitati, sarebbe stato interessante.
Notes
1
Aldo Moro, ex Primo ministro e presidente della Democrazia Cristiana (partito che ha governato l’Italia dalla fine della Seconda guerra mondiale), venne rapito da un commando delle Brigate Rosse, gruppo terrorista di estrema sinistra che in quell’occasione uccise tutte e cinque le sue guardie del corpo. Moro aveva un ruolo chiave per una possibile intesa fra la DC e il PCI (Partito comunista italiano), chiamata “compromesso storico”. Dopo 55 giorni di prigionia e in seguito a un “processo popolare” cui Moro venne sottoposto da parte dei suoi carcerieri, venne condannato a morte e ucciso. Moro scrisse diverse lettere disperate ai suoi colleghi di partito e ai familiari, ma la DC, insieme al PCI (che all’epoca era la seconda forza politica del Paese), scelse la linea dell’intransigenza rispetto a tutte le richieste dei terroristi (avevano chiesto la liberazione di una decina di loro compagni che si trovavano in prigione). La risonanza del fatto fu enorme. Fu l’azione terroristica più importante della storia della Repubblica italiana. Meno di un anno dopo la morte di Moro, bona parte dei terroristi che avevano partecipato al rapimento venne arrestata. Diverse teorie sono state avanzate per spiegarne aspetti che ancora oggi non sono stati chiariti, fra le quali l’ipotesi di un complotto che oltrepassava ampiamente la responsabilità delle Brigate Rosse. Il “caso Moro” ha avuto conseguenze molto importanti sulla storia politica e giudiziaria italiana degli anni successivi.
2
Bertolt Brecht, Poèmes, IV, Paris, L’Arche, 1966, p. 187.