Noche húmeda.
Intoduzione
Dal diario di Eli, estate 2000:
Lunedì 12 giugno
23:02: Seduto ad ascoltare Loveline alla radio. Lo ascoltavo sempre al liceo. Ritorno al passato.
Martedì 13 giugno
16:25: A casa da mio padre... mi sono appena tagliato i capelli. Sto chattando con Dana online, sto cercando di darle indicazioni per casa mia a Willard in modo che abbia un passaggio per andare a vedere insieme i Blink, ma sembra essere più interessata a giocare con il suo gatto.
22:48: finalmente ho visto il nuovo film di James Bond, abbastanza bello, dai. Mi è esplosa la sinusite da quando sono arrivato qui, lo fa sempre. Ascolto un'altra puntata di Loveline, credo che disegnerò a Dana una mappa per casa mia.
Mercoledì 14 giugno
15:01: Beh, sembra che Dana non venga più con me a vedere i Blink (cioè, verrà per conto suo seguendomi o mi incontrerà lì) e forse nemmeno Erik (ma ci sta ancora pensando) vado fuori e pulisco la mia macchina.. ..io e mio padre gli daremo una bella pulita. Ho preso un po’ di sole prima quando ero là fuori, spero di non essermi scottato proprio prima di andare a vedere i Blink.
23:29: Ho deciso di restare a Vancouver. Mio padre e io abbiamo guardato un programma in TV di quelli sui salvataggi, abbastanza figo, dai. Sto parlando con Kyle del lavoro. (fa più o meno lo stesso lavoro che faccio io ma in un posto diverso) Oggi ha fatto 40 minuti e 37 secondi nel pack test. Dovrò provare a batterlo :-) E alla fine sì, il collo brucia, sono annoiato, stanco no, ma mi sa che andrò a letto molto presto.
Giovedì 15 giugno
13:28: Adesso a casa, sono tornato circa 30 minuti fa. Davvero una bella giornata, davvero bella. Stamattina ho tirato fuori i miei vestiti dalla lavatrice di mio padre e quasi metà delle mie camicie erano rovinate dalle macchie di candeggina. Immagino che abbiano usato il programma CON CANDEGGINA e ce n’era troppa o qualcosa è andato storto ... non lo so. Ma fanno davvero schifo. Immagino di aver appena rimediato delle nuove camicie da lavoro. Penso che andrò a fare un giro in bicicletta. È troppo bello fuori per restare dentro.
Sabato 17 giugno
15:28: Premio per il Seno della serata va alla ragazza con il top rosa all’americana…Vince a mani basse!!!
(Questo sarà un post abbastanza lungo, vi avverto) Lo spettacolo e il viaggio sono stati fantastici.
[…]
I Blink sono stati fantastici, amo la loro musica, lo spettacolo è stato fantastico, ero assolutamente entusiasta di essere così vicino a loro. Forse la qualità migliore della band è il senso dell’umorismo. Hanno incorporato alcuni testi di Eminem in una delle canzoni, e poi hanno preso in giro quella dannata thong song correndo fuori sul palco con indosso i boxer e nient’altro, agitando il culo verso la folla al ritmo della musica. Spettacolo dannatamente bello.
[…]
Il blog, un diario dal vivo
Solo cinque anni prima, per leggere gli appunti della vita di Eli Lehmann1, allora neanche ventenne studente dell’Università di Washington, avremmo avuto bisogno di un’iniziativa come quella dell’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano, che dal 1984 raccoglie in Italia scritti di memorie di gente comune: diari, appunto, ed epistolari e autobiografie destinate a restare chiuse nei cassetti dei loro autori, destinati a loro volta a restare sconosciuti. Da raccolte come quella, che trova corrispondenze in altri contesti geografici e di studio, emerge un patrimonio storico, letterario e antropologico della memoria, una banca popolare che tiene in custodia voci prive, più che di una storia, di una scrittura che si riscatta dall’oblio soltanto in un impegno consapevole di ricerca, scoperta e archiviazione. Come ha fatto, a proposito di altre esperienze di memorie di gente comune, The Anonymous Project. Nel progetto di Lee Shulman, le opere non usano parole ma usano la luce, sono fotografie che il regista americano ha iniziato a collezionare dopo aver acquistato nel 2017 una scatola di diapositive in un mercatino dell’antiquariato, fino a costruire un archivio che documenta e racconta 70 anni di vite, di luoghi e di storie americane che sarebbero rimaste esposte al deterioramento chimico del supporto e alla loro conseguente, definitiva scomparsa. Come la scrittura sulla carta, la fotografia è un medium che la gente comune ha sempre usato per raccontare e raccontarsi, ricordare e ricordarsi, almeno a partire dal momento in cui, nella seconda metà del Novecento, i costi delle fotocamere e dei rullini a colori sono diventati accessibili a un pubblico di amateurs, appassionati non professionisti che impugnavano la macchina fotografica per celebrare occasioni rituali come compleanni, feste, viaggi, vacanze da incorniciare sulle credenze e librerie di casa oppure da proiettare di tanto in tanto sul muro, in altri riti familiari. Ma, il più delle volte, come i diari nei cassetti, trattenute dai loro autori nel buio di una busta, scritture senza possibilità di letture.
Nel 2000, invece, Eli non scrive il suo diario su un quaderno custodito nel cassetto, né tantomeno su un documento Word salvato in una cartella, magari protetta da una password, dell’hard disk del suo personal computer. Eli scrive sulla rete, alla luce del sole del suo blog aperto su LiveJournal.
Il blog, quale forma espressiva propria di internet, esisteva da quando esisteva il world wide web, o meglio da quando nella seconda metà degli anni Novanta designer, sviluppatori e professionisti del nuovo medium avevano pensato di stabilire una presenza personale sulla applicazione ipertestuale di internet sviluppata da Tim Berners-Lee nel 1991. Quei siti erano letterali diari personali di bordo2, in cui gli autori tenevano traccia pubblica delle proprie navigazioni online, annotando pagine e contenuti degni di interesse trovati sul web. Gli appunti erano datati e ordinati secondo un criterio cronologico discendente nella home page dell’autore o in una pagina dedicata chiamata “News”. Quando la quantità di note aumentava, il blogger creava gli archivi spostando i post più vecchi in pagine organizzate per mese e anno. L’avvento nel 1999 di due applicazioni web come LiveJournal e Blogger3, che automatizzano (gratuitamente, senza alcun costo per gli utenti) tutte le operazioni di creazione, gestione e organizzazione del blog, non aumenta solo la platea di potenziali blogger – in teoria e al tempo oltre trecento milioni di utenti internet4 che non hanno bisogno di alcuna competenza informatica superiore alla padronanza base di Microsoft Word, per essere in grado di scrivere su un sito web – ma, conseguenza ancora più importante, cambia l’ontologia delle scritture sui blog. Se a ragione Jorn Barger e Dave Winer, due pionieri storici della prima èra, sostenevano che il blog era una pagina web in cui l’autore loggava letteralmente altre pagine web che trovava interessanti5 oppure, nella spiegazione di Winer, “una nuova specie di sito di popolarità crescente facile da creare e aggiornare […] una collezione di link, aggiornata di frequente, spesso più volte al giorno […] un modo agile per condividere ciò che scopri con altre persone che amano il web”6, se queste definizioni valevano per i primi sperimentatori della nuova forma espressiva, con LiveJournal e Blogger non reggono più. Da siti link-driven, vale a dire pagine di segnalazioni di articoli, altri siti e pagine accompagnate da un breve commento del blogger, esploratore di una rete che non aveva ancora eletto Google come motore assoluto di ricerca e di scoperta, né aveva ancora visto nascere i social media, i blog cominciano a diventare un mezzo attraverso il quale l’autore registra non tanto le navigazioni online ma i suoi pensieri7. Il blogger si trasforma da guida rapida al nuovo mezzo a curatore in prima persona di una scrittura intima composta, come nel caso di Eli Lehmann, di cronache minute del fine settimana, di allusioni al lavoro, ricordi di infanzia o manifestazioni nostalgiche dell’adolescenza, di cenni alle vicende familiari, commenti su avvenimenti di portata nazionale o internazionale. Al contempo, intrattiene – e sempre in pubblico – una conversazione con il network (e i diari) di altri amici, uniti nelle catene di riferimenti ipertestuali tra un blog e l’altro, un post e l’altro. Secondo Rebecca Blood8, prima ancora che a una spinta emulativa di blogger influenti come Evan Williams e Meg Hourinan9, la trasformazione si deve alla semplicità minimalista dell’interfaccia di pubblicazione messa a disposizione dai sistemi di blogging10 per i propri iscritti. Alle scritture già rese “amichevoli”dalla nuova generazione di applicazioni web, il modulo software non imponeva nessun formato e nessun genere: un campo per il titolo, un campo per il testo dell’articolo, il pulsante “Pubblica”. L’amateur, la massa delle centinaia di milioni di navigatori che aveva solo un’idea vaga di che cosa fosse un “weblog” e la sua collezione di hyperlink, ma sentiva di avere qualcosa da dire, scrivere, salvare su un supporto di memorizzazione, ora e per sempre, trovava di fronte a sé un’occasione che non gli si era mai presentata nella storia, così diretta e gratuita: pubblicare. Tutti quei grafomani che Milan Kundera considerava, non senza una certa dose di disprezzo, malati, rappresentanti infetti di una società immobile e atomizzata che avvertono l’impulso di dedicarsi a un’attività inutile come la scrittura, autori di memorie, lettere, diari, appunti, cronache da tenere non per sé o per persone conosciute, ma da destinare anche alla lettura di un pubblico potenziale di sconosciuti11, tutti quei grafomani non avevano altro da fare che navigare su un sito, compilare un form di registrazione, loggarsi, e compilare una volta, due volte, tutte le volte in cui ne avessero avvertito l’esigenza, un altro semplice modulo, quello in cui avrebbero salvato e diffuso pubblicamente i propri scritti all’interno di un sito web che assumeva i contorni letterari di una vera e propria opera – composta, organizzata, indicizzata, impaginata e “stampata” per i posteri dagli automatismi algoritmici del software di blogging12. Nella semplificazione applicativa “del percorso tra un pensiero e la sua pubblicazione”13, in una tecnologia del sé che nello scambio mutuale con le pratiche d’uso dei suoi utenti produceva su un medium digitale interconnesso artefatti culturali inediti14, un sistema di memoria allo stesso tempo individuale e collettiva, distribuita, fatta di appunti, di commenti, opinioni, collegamenti, frammenti testuali – e poi anche di fotografie, video, suoni –, nel blog della rete ipermediale, in altre parole, stava nascendo un nuovo “rapporto di scrittura”.
Il potere di scrittura
Ripercorrere insieme ad Armando Petrucci la storia della letteratura italiana15 ci aiuta a chiarire sia i termini della definizione appena introdotta di “rapporto di scrittura”, da lui stesso fornita, sia a introdurre un’altro, decisivo concetto che mette in relazione tecniche, tecnologie e mezzi di produzione e diffusione dei testi (e la loro disponibilità) con la pratica dello scrivere, un concetto che dobbiamo a Raul Mordenti: il “potere di scrittura”16.
Quanto alla relazione tra un autore e una sua opera, Petrucci nota come insieme ai mutamenti della considerazione della figura dell’autore, ai suoi rapporti con il pubblico, all’influenza delle teorie letterarie che a loro volta rielaborano i termini delle valutazioni di autori e testi e, di conseguenza, il significato sociale, culturale e ideologico che una data produzione di testi in una certa società, in una data epoca, assume, insieme a tutti questi elementi, quelli delle tecniche di scrittura e di produzione del libro hanno da sempre influito sull’effettivo “grado di partecipazione diretta dell’autore all’opera materiale del proprio testo”: a partire dalla stesura dei manoscritti fino alla contemporaneità informatica del word processing, passando per l’èra gutemberghiana, la distanza del prodotto dell’intelletto dal suo artefice originale è ora più vicina, ora più lontana, ristretta o ampliata da un numero variabile di mediazioni che da sempre condizionano “le vicende della composizione, della diffusione e della trasmissione delle singole opere”17. Petrarca, ad esempio, si scagliava contro il processo di produzione dei manoscritti del suo tempo, colpevole nella divisione para-industriale del lavoro (la preparazione della pergamena, la [ri]scrittura materiale, le correzioni, le illustrazioni, la rilegatura, le decorazioni) di non conservare più traccia del rapporto tra l’autore e il suo testo, un legame che solo l’autoproduzione, cioè il codex scritto dalla mano dell’autore stesso, poteva ristabilire18. Quando all’inizio del XVI secolo prende il sopravvento la stampa a caratteri mobili, dando l’avvio alla “rivoluzione inavvertita”19 del libro moderno e a un’industria tipografica che avrebbe rivoluzionato la diffusione dei testi e provocato un’esplosione dei prodotti culturali nei successivi quattro secoli, il “rapporto di scrittura” subisce un’ulteriore, profonda trasformazione o peggio, a volerla mettere nella prospettiva petrarchista, un’ulteriore, incolmabile aumento della distanza tra i due termini della relazione. I tempi e i ritmi di stampa imposti dalla composizione a caratteri mobili del testo spostavano, una volta che il lavoro fosse entrato in tipografia, il baricentro del rapporto in favore dei “nuovi padroni del processo meccanico, editori e tipografi”20. Se è pure vero che tra Ottocento e Novecento, gli autori, i “letterati” stabiliscono un legame consapevole e “organico” con l’industria e il mercato della stampa, fino addirittura a volgere in alcuni casi a proprio favore l’inclinazione del piano di equilibrio21, è altrettanto innegabile che la nascita di una “cultura industriale” del libro impone necessità economiche e produttive che uniformano e standardizzano il lavoro necessario alla preparazione e composizione del testo, aprendo la strada alla stessa meccanizzazione (ad esempio per il mezzo della macchina da scrivere) della scrittura manuale fino alla sua informatizzazione (e smaterializzazione) sullo schermo del computer.
Senza per il momento spingerci nel territorio della trasformazione digitale, proviamo a fermare l’attenzione sulla portata, insieme tecnologica e culturale, dell’introduzione della stampa a caratteri mobili e a metterla in una prospettiva problematica con quelle scritture letterarie “minori” che hanno preso il nome di “libri di famiglia”22. I libri di famiglia sono stati un fenomeno italiano concentrato tra il XIV e il XVI secolo, anche se non mancano tracce significative ancora nell’Ottocento e nel Novecento. Erano il prodotto di una nuova categoria di alfabetizzati emersa tra il XII e il XIII secolo, “alfabeti liberi” che avevano conquistato un diritto alla scrittura esercitabile al di fuori delle figure e delle gerarchie sociali e professionali date (maestri, scrivani, religiosi, notai, giudici, ecc.): scrivevano perché avevano la capacità intellettuale e materiale di farlo23. La famiglia era sia mittente che destinatario nonché tema del libro, la cui stesura passava di mano in mano, in una staffetta generazionale del testimone della scrittura che documentava le vicende memorabili del nucleo familiare (matrimoni, nascite, morti, eredità, successioni), non di rado intrecciandole con l’annotazione di eventi storici (incoronazioni, guerre, faide cittadine) e la registrazione di esperienze intime come i sogni. Né diario né cronaca, né raccolta di memorie, né tantomeno una forma embrionale di autobiografia: il libro di famiglia era un vero e proprio nuovo genere letterario a sé stante, un prodotto originale della scrittura di “gente comune” non appartenente alla classe di “letterati”.
Nonostante, come accennato, la presenza di episodi significativi di libri di famiglia risalenti al XIX e XX secolo, Raul Mordenti nota un declino consistente nella loro produzione a iniziare dal Seicento. L’ipotesi della graduale ma costante scomparsa è giusto la frapposizione di una distanza tra quel diritto alla scrittura e il suo esercizio: accentrando in un procedimento meccanico e industriale la scrittura, riportandola dentro una gerarchia economica, istituzionale e professionale di addetti ai lavori, la stampa favorisce la concentrazione del “potere di scrittura” nel potere politico centralizzato dello stato burocratico e della chiesa prima, e dei libri e dei giornali poi. Sono queste, scrive Mordenti, “le condizioni necessarie affinché possano esprimersi compiutamente come esclusivi poteri del potere la persuasività, la propaganda, la memoria glorificante (ma anche le corrispettive, e non meno importanti, funzioni di dissimulazione, occultamento segreto)”24. Documentare, raccontare, registrare, annotare, ricordare, in una parola: scrivere (e tanto più pubblicare), al di là degli spazi regolamenti dalle leggi, diventano funzioni riservate al potere dello stato per l’esecuzione di una “forma moderna di controllo capillare dei cittadini”25.
Libro di familia dei Petrucci, 1790.
Continuare a ragionare nei termini di “rapporto di scrittura” e sulla scia storica dei libri di famiglia rende evidente come il blog di Eli su LiveJournal sia espressione non solo di un nuovo genere di scrittura “popolare”, che esce dalla custodia segreta delle mura domestiche della casa familiare per manifestarsi in pubblico, ma sia anche la testimonianza di una rivoluzione tecnologica e culturale che riavvicina gli scriventi, professionali e non, alla produzione, pubblicazione e diffusione dei propri testi. Mentre i grandi mediatori dell’èra gutemberghiana si scoprono superflui e i confini degli stati nazionali sfumati dalla globalità di internet, le piattaforme web di self publishing della fine degli Novanta e gli inizi degli anni Duemila riconsegnano ai margini una nuova tipologia del potere di scrittura. È un potere che innanzitutto tratta un testo nativamente informatico che si qualifica come ipertesto nel senso letterale di “supertesto”, stratificazione e combinazione di layer di tessuto in cui si sovrappongono e collegano in una forma nuova linguaggi e codici comunicativi. La dimensione multimodale del testo estromessa dalla tecnologia (e dall’economia) della stampa si sintetizza nella discrezione di un linguaggio binario che tratta i segni dell’alfabeto come i punti di colore di una fotografia, i fotogrammi di un video oppure le note di una canzone. La multimodalità della scrittura, combinata con gli automatismi del software di gestione dei contenuti, agevola le potenzialità delle manifestazioni individuali, moltiplica la libertà testuale e complica la riducibilità del genere a una categoria pregressa. Anche volendo rifarsi alle forme storicamente sedimentate di autorappresentazione come quelle diaristica, autobiografica e autoritrattistica26, la rimediazione tecnologica delle prime applicazioni web qualificabili in senso proprio come social media (le già citate LiveJournal e Blogger, e poi WordPress, Flickr, Delicious, YouTube) mischia le carte mettendo sul piatto anche uno zibaldone, un album fotografico di famiglia, un giornale, uno speech corner, una rubrica di commenti in un remix di formati, linguaggi, codici e contenuti senza precedenti nella storia dei mezzi di comunicazione. Con ogni probabilità, nessun avvenimento meglio dell’attentato alle Torri Gemelle a New York dell’11 settembre 2001 dimostra il definitivo rimescolamento dei generi e l’inizio della sovrapposizione tra la dimensione intima e quella sociale della narrazione e della memoria, il momento in cui le scritture ai margini del (se non del tutto nascoste al) dibattito pubblico hanno fatto irruzione nella storia con la forza drammatica della testimonianza diretta. I blog di gente comune di New York, lavoratori, pendolari, parenti, amici, conoscenti, cittadini con un sito web dalle caratteristiche peculiari a formare – in un racconto in presa diretta ma destinato a essere archiviato nei bit della rete – un’unica, grande entità testuale fatta di parole, immagini, suoni che la potenza di scala del network ha connesso in qualsiasi parte del mondo, una memoria che nasce estesa e condivisa al di là dell’area geografica di origine.
Non si trattava semplicemente di citizen journalism, era qualcosa di più – e di diverso. Era il racconto di una nuova generazione di scrittori che pubblicava, senza intermediazioni, la “prima bozza della storia”, per citare Dan Gillmor27, direttore del Center for Citizen Media28. L’appunto che dalle Torri Gemelle vola nella casa di Anthony Hecht, le cifre – in milioni, di dollari presumibilmente – scritte a macchina, quel brandello di carta annerita che puzza di bruciato simboleggia la tragedia29 e fotografa l’avvio di un’epoca in cui il potere di scrittura abbandona le strutture gerarchiche e centralizzate della stampa (e del broadcasting televisivo) per diffondersi dal basso e dai margini. Oramai qualche anno fa, con Domenico Fiormonte ci chiedevamo come fosse possibile, a quel punto dell’evoluzione delle piattaforme social di gestione dei contenuti del web 2.0, definire i confini della scrittura o meglio – seguendo Michel Foucault – di un’opera: stabilire le linee di demarcazione tra ciò che è pubblicabile e ciò che non lo è, tra privato e pubblico, tra personale e sociale, tra ricordo intimo e memoria collettiva30. Che cosa possiamo scrivere? Che cosa dobbiamo “salvare”? La risposta è arrivata qualche anno dopo: tutto.
Facebook: scrivere su ordine dell’algoritmo
The Every, qualsiasi cosa. Scritto da Dave Eggers nel 2013, Il Cerchio31 raccontava il dominio crescente dell’omonima azienda big tech, fusione finzionale di Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft32. Romanzo definitivo sulla fine del web 2.0 e l’inizio della fase di consolidamento delle social app, The Circle avvolgeva il mondo in una socialità tecnologicamente mediata in cui utenti, clienti, lavoratori, cittadini partecipavano tramite la condivisione di ogni momento della propria vita alla mappatura di ogni possibilità di conoscere, ricordare, archiviare: “condividere è prendersi cura”, era uno dei tre slogan fondativi di un’azienda che nella sua sede incorporava letteralmente le esistenze dei propri dipendenti. Lavoro, tempo libero, amici, amori, vita familiare si svolgevano dentro le mura trasparenti di edifici che escludevano la riservatezza e i segreti per includere una concezione di successo professionale e crescita personale misurata sulla base delle interazioni pubbliche con colleghi, clienti, capi, amici, seguaci. La parabola della folgorante carriera di Mae Holland, la protagonista del romanzo, sta tutta nell’adesione ai valori del Cerchio: dal momento dell’assunzione come una tra le tante addette al customer care (online, ovviamente), un post dopo l’altro, una condivisione dopo l’altra, Mae arriverà al vertice dell’azienda avendo oramai del tutto trasceso la distinzione tra sfera pubblica e professionale, da un lato, e sfera intima dall’altro e avendo consegnato la propria esistenza a una socialità iperconnessa dalla quale è impossibile chiamarsi fuori, se non con una dichiarazione di fallimento – una colpa da pagare con una condanna alla gogna pubblica, ovviamente. Di “imperativo a condividere”, parla José van Dijck nella sua storia critica dei social media, riferendosi nello specifico a Facebook33. Otto anni dopo, Eggers ha scritto il sequel di quel romanzo, cambiando il titolo del libro e il nome dell’azienda: The Every, appunto34. Non c’è più bisogno di tracciare una circonferenza che racchiuda una visione del mondo e della società incentrata su un’architettura economica che trae profitto dalla quantità di dati che gli utenti cedono alle piattaforme e che gli algoritmi sono in grado di monetizzare sotto forma di inserzioni pubblicitarie35. La “società piattaforma” è tutta la società del nostro tempo e qualsiasi cosa la mente dell’uomo possa pensare, immaginare, scrivere, ricordare è integrata in un “Benevolent Market Mastery, un dominio benevolo del mercato, per la simbiosi senza soluzione di continuità che si instaurava tra azienda e cliente, un perfetto stato d’essere per il consumatore, dove tutti i desideri venivano presi in carico con efficienza e a prezzo più economico”36. Facebook in particolare ha trasformato il consumo in una catena di montaggio dell’autorialità e della creatività: i consumatori dei social media sono dipendenti di una fabbrica della scrittura che produce una narrazione senza soste, sottomessa agli strumenti, agli attrezzi, alle tecnologie, agli algoritmi e al margine di profitto di un’azienda.
Nei sei anni decisivi in cui ha sviluppato l’assetto tecnologico e culturale che tuttora la caratterizza, quelli che vanno dal 2010 al 2016, la piattaforma di Mark Zuckerberg si è impadronita di ogni forma di comunicazione venuta alla luce con il web e con il web 2.0, inglobandola tra le proprie funzionalità applicative oppure – molto più pragmaticamente – acquisendola con la forza incontrastabile del proprio status finanziario ed economico37. Piuttosto che specializzarsi con una tipologia di contenuto, Facebook ha mantenuto nel tempo la sua natura di app generalista, impostata sul modello originario dei social media – il blog. Mentre si occupava di rendere il mondo “più aperto e connesso” e si posizionava come una “infrastruttura centrale del web”38, con il numero di iscritti in crescita vertiginosa, così come i collegamenti interni al network mappati dall’Open Graph39, l’applicazione ha reso normativa, avocandola a sé, una nozione di condivisione propria di una cultura partecipativa che aveva appena iniziato a prendere parte al dibattito pubblico scrivendo sul web (e fotografando, girando video, etc.). Ma nella transizione dalle piattaforme di blogging alla piattaforma Facebook, il rapporto di scrittura cambia ancora, muovendo di nuovo il piano di inclinazione del potere verso un soggetto in grado di stabilire una regolamentazione più stringente e assumere un controllo più pervasivo di quanto avesse mai potuto permettere la tecnologia tipografica, nonostante promuova un’ideologia di apertura democratica alla libertà di espressione. Nessun potere politico o economico ha mai disposto della quantità di dati presenti nei database delle piattaforme social alimentati dalle attività di miliardi di utenti registrati nelle corrispondenti app: la regolamentazione della legge dello stato ha inevitabilmente ceduto il passo a una “regolamentazione algoritmica” à la Facebook, grazie alla quale alla burocrazia statale si sostituisce una psicologia comportamentale in grado di monetizzare le scritture, esplicite e implicite, sui social media – scritture “datizzate” e vendute come merce ad aziende che se ne serviranno per fini pubblicitari40. Tre miliardi di utenti/scriventi attivi al mese (cui andrebbero aggiunti, nell’ecosistema Facebook, quelli fotografanti di Instagram e quelli chattanti di WhatsApp41) pubblicano e condividono le loro storie fatte di successi professionali, appuntamenti di lavoro, resoconti di imprese giovanili, ricordi di infanzia, pensieri liberi, appunti di viaggio, foto delle vacanze, escursioni con i figli, elogi funebri di un familiare, dialoghi con i colleghi, conversazioni con gli amici, commenti alle vicende della politica e della cronaca, visioni di film, serie TV, ascolti di canzoni, letture di libri, non tanto perché hanno a disposizione un sistema di gestione di contenuti che rende agevole la transizione da un pensiero alla sua pubblicazione, quanto perché sono integrati in un sistema di procedure informatiche che incentiva i suoi membri a raccontare e a raccontarsi nell’ottica di un modello di business.
Secondo van Dijck è stato proprio il passaggio dall’ordine strutturale di un database all’ordine strutturale di un meccanismo narrativo a segnare il primo passaggio di stato di Facebook da una logica “utente-centrica” simile al blog, nella quale l’interfaccia si limitava a registrare le attività degli iscritti secondo la quantità delle relazioni e i tempi degli aggiornamenti e dei contenuti salvati nel network, a una logica “azienda-centrica”, nella quale è l’interfaccia dell’applicazione a stabilire e predisporre modelli, formati, generi che dirigono tutti i possibili modi in cui gli utenti agiscono sulla piattaforma, così come prevedono e incentivano certe forme e certe tipologie dei contenuti da scrivere42. È un incentivo ben lontano dal disinteressato anelito alla edificazione di una Xanadu digitale, una città che custodisca le meraviglie della memoria degli uomini e delle donne, nessuna esclusa. L’imperativo a condividere è un ordine a scrivere che è una ingiunzione a partecipare, sì, ma a una competizione: quella contro gli altri scriventi. L’introduzione dell’EdgeRank nel 201043 è la prova senza appello che dimostra come il potere di scrittura apparentemente consegnato alla “gente comune” sia in realtà uno strumento regolabile di un modello economico che genera profitto in un rapporto di proporzionalità diretta con la quantità di contenuti generati nell’applicazione. L’algoritmo dell’app valuta, pondera, seleziona, esclude, filtra, classifica e promuove sui singoli, individuali News Feed degli utenti i contenuti pubblicati all’interno della piattaforma, calcolandone la rilevanza presunta, nei termini di interesse e motivazione a reagire e interagire, per quello specifico News Feed di quello specifico utente. Ogni volta che dal suo smartphone un utente con una cerchia di amici estesa apre l’app di Facebook, ci sono troppi contenuti, troppi scritti, troppi ricordi fotografici, troppi video, perché possano essere tutti letti, guardati, fruiti: nel breve lasso di tempo concesso dalla sessione di scrolling, l’algoritmo del News Feed scarta oltre l’ottanta percento delle storie, lasciandone visibili in media solo 300 delle oltre 1500 disponibili44. Il social ci chiede di condividere qualsiasi cosa, ma a sopravvivere alla selezione darwiniana sono le scritture che si adattano meglio alla produzione di engagement, vale a dire alla produzione di energia per il motore di alimentazione del loop di scrittura e condivisione dal quale l’azienda ricava altri dati da valutare. Al termine di un ciclo senza soluzione di continuità, l’app screma il valore da vendere agli inserzionisti che intendono acquistare pubblicità personalizzata sugli interessi e i desideri – qui e ora – degli utenti che interagiscono sulla piattaforma.
Eppure, che si tratti di contenuti che si salvano oppure di contenuti che non superano la esiziale sfida evolutiva della macchina di produzione algoritmica, tutto il potenziale infinito di uno scrivere che da memoria individuale possa riscoprirsi memoria collettiva resterà sempre e comunque trattenuto nella disponibilità esclusiva dei codici e delle interfacce di Facebook. Dalla riprogrammazione del potere di scrittura come mezzo di una socialità pubblica o semi-pubblica da monetizzare in privato consegue una profonda riconfigurazione del potere di ricordare, di conservare la memoria e di stabilirne le leggi e i modi accesso. Se Eli scriveva il suo diario in diretta nel codice aperto del world wide web, nativamente predisposto a essere archiviato, salvato e reso leggibile anche dopo la scomparsa delle sue pagine da motori di scraping come Wayback Machine di Internet Archive45, l’architettura applicativa di Facebook, come quella degli altri social media, è di default resistente all’archiviazione: i termini di utilizzo delle piattaforme negano il dominio pubblico ai contenuti delle app e nonostante sia possibile accedere ad alcune API per estrarre dati, l’archiviazione di Facebook resta impossibile46. Il paradosso di un “mondo aperto e interconnesso” legalmente inaccessibile ai posteri non è l’unico, perché l’impossibilità di ricordare è legata anche alla scomparsa del tempo. Il blog del web seguiva una linea temporale disciplinando le azioni di scrittura nell’ordine sequenziale della data in cui avvenivano, nasceva di fatto come un archivio di scritti organizzato in anni, mesi e giorni che davano un senso di continuità ai ritmi quotidiani e alle fasi della vita, agli avvenimenti circostanti, al procedere delle cose del mondo. Per le social app, la data di pubblicazione è soltanto uno tra i tanti metadati da processare, un segnale da bilanciare con altri segnali per misurare il grado quantitativo di un successo e una visibilità il cui futuro dura lo spazio di una connessione in un giardino chiuso pronto a sotterrare in fretta quello che 60 secondi prima era nuovo.
Conclusioni
La promessa con la quale Facebook – e tutti i social media che ne hanno seguito le tracce negli ultimi dieci anni – ha conquistato miliardi di utenti attivi è stata quella di renderci scrittori, curatori e distributori delle nostre stesse storie. Mark Zuckerberg ha messo a disposizione degli utenti della rete un modello di comunicazione e pubblicazione personale che da un lato superava i limiti e gli impegni tecnici richiesti dal blog, favorendo un’integrazione ancora più seamless tra dispositivo informatico e applicazione di scrittura/lettura, e dall’altro espandeva la platea di pubblico con la quale interagire e cercare coinvolgimento, gratificazione e successo, contando sugli effetti di scala benefici di un network destinato a diventare ampio quanto la rete stessa.
L’aspirazione di una massa indistinta di persone non tanto a comunicare sic et simpliciter quanto a comunicare attraverso la scrittura non è peraltro una caratteristica peculiare della nostra epoca. In realtà, da sempre chi dispone della capacità intellettuale e materiale di farlo, scrive: scrive per documentare, raccontare, registrare, annotare, ricordare, condividere. Come dimostra il vero e proprio genere letterario dei libri di famiglia -il prodotto italiano (ma non soltanto) di una nuova categoria di alfabetizzati emersa tra il XII e il XIII secolo e attiva in particolare tra il XIV e il XVI secolo-, la scrittura della “gente comune” esiste nel tempo e nello spazio di un’intimità domestica e sommersa che si è avvalsa di forme, linguaggi e mezzi che le diverse tecnologie delle diverse epoche hanno consentito e a lungo è restata parallela (per non dire: sottomessa) alla pubblicità delle scritture religiose, politiche, economiche e professionali, pur svolgendo le stesse identiche funzioni: fissare, comunicare, conservare.
Le prime piattaforme web di self publishing tra la fine degli anni Novanta e gli inizi degli anni Duemila hanno instaurato una convergenza inedita tra intimità e pubblicità, tra informalità e ufficialità e, a partire dalla rilevanza conquistata dai blog dopo l’11 settembre 2001, il potere di scrittura della stampa (e più in generale dei mass media, a partire dalla televisione) si è trovato a fare i conti non soltanto con il potere economico, politico e legislativo – suoi tradizionali e riveriti interlocutori nonché abilitatori – ma con il potere concorrente di un medium la cui architettura tecnologica favoriva spinte dal basso (user generated content) e centrifughe (molti che comunicano a molti) che aggiravano la necessità sia degli investimenti economici che delle regolamentazioni politiche e normative. In questo senso, il world wide web agiva da piattaforma ospitale e ideale di un rapporto di scrittura che moltiplicava per un fattore senza precedenti le possibilità di produzione, fissazione, comunicazione e conservazione dei testi.
Nell’attuale, contingente configurazione di internet e delle sue applicazioni, si tende colpevolmente a dimenticare come la scelta di Tim Berners-Lee di lasciare nel pubblico dominio la sua invenzione, rispondesse a un principio ideale in base al quale una volta messi a disposizione sul web, un testo, un’immagine, un suono, o un video dovrebbero essere fruibili a tutti con qualsiasi tipo di computer o device dotato di un browser. Alla base del principio dell’interoperabilità, stava (sta) un altro, fondamentale principio: l’accessibilità del codice. La funzione “Visualizza sorgente pagina”, presente in ogni menu di ogni programma di navigazione del web, è un dispositivo ancora attivo di un’età in cui la rete si arricchiva di documenti ipertestuali collegati tra loro a futura memoria: la semplicità del linguaggio HTML in scrittura si riflette nella semplicità in lettura e di conseguenza nell’apertura a molteplici, interoperative possibilità di condivisione, scambio e archiviazione dei documenti. L’esperienza formidabile della Wayback Machine, la macchina del tempo dell’Internet Archive che conserva in un museo online ventisette anni di storia del web e consente di ricercare più di settecentotrenta miliardi di sue pagine pubblicate a partire dal 199647, testimonia la capacità del web di offrire una piattaforma aperta di pubblicazione che non sacrifica nessuna delle fondamentali funzioni della scrittura, a cominciare da quella – cruciale – della conservazione. Neanche quando le applicazioni di blogging hanno spostato l’asse della produzione dei contenuti verso la “logica del database” e hanno reso le pagine web ancora più effimere e instabili, il web ha abdicato al ruolo di custode pubblico di una memoria collettiva oramai digitalizzata.
Ironia della sorte, è stata un’applicazione che ha sfruttato la disponibilità del world wide web come piattaforma aperta a decretare la fine della sua centralità come modello di fissazione, comunicazione e conservazione delle scritture sulla rete. Su Facebook, così come sugli altri social media che non siano i blog, oltre due miliardi di utenti scrivono le proprie storie, condividono i propri ricordi in uno spazio che ha fuso in via definitiva la sfera intima con quella pubblica, ma tutti quei testi scritti e pubblicati non hanno una via di uscita dal giardino chiuso del social network, che non a caso incoraggia, se non costringe, a usare l’app dello smartphone come terreno di elezione della sua esperienza d’uso. Il web e l’HTML sono ridotti a elementi infrastrutturali di un’architettura applicativa che non consente una riprogrammazione interoperativa dei contenuti, pena la perdita di valore di una catena di montaggio che produce scrittura sotto forma di testi, foto, video e sottomette gli utenti che l’hanno generata, le loro vite, biografie e storie alla mercé dell’algoritmo di proprietà di Zuckerberg, un narratore onnisciente e totalitario che vende i suoi scrittori/personaggi agli unici, veri utenti che stanno a cuore all’applicazione: gli inserzionisti pubblicitari.
Si realizza così un risultato esiziale per la conservazione dei testi condivisi in rete attraverso le social app: fissata nei data center delle grandi multinazionali tecnologiche, la scrittura si conserva a loro prioritario, esclusivo e presente consumo. Agli algoritmi dei social media le timeline degli utenti non interessano come flusso di contenuti da trattare, ordinare e rendere disponibili secondo le leggi della cronologia, interessano come un grande, immenso lago dal quale pescare dati da inserire in un loop orientato a bloccare gli utenti sull’app, qui e ora. Qui e ora, perché come sono irriducibili alla lettura di altre applicazioni, così i testi di (e su) Facebook sono irriducibili allo scorrere del tempo, a quella separazione tra un prima e un dopo che fonda la capacità stessa di ricordare quanto salvato in una memoria. È un paradosso che richiama Funes, l’uomo della memoria di Jorge Luis Borges. Il popolo della rete, abilitato dalla tecnologia dei dispositivi mobili, incoraggiato dalle social app, scrive, comunica ogni dettaglio minuzioso della propria vita personale, familiare e pubblica, ma lo salva in una interfaccia software che non differenzia, non generalizza, non astrae, se non a beneficio della implacabile macchina algoritmica e dei suoi investitori. Come sa bene il narratore del racconto dello scrittore argentino, però, senza differenziazione, senza generalizzazione e senza astrazione, riesce difficile pensare che si possa pensare. E che si possa ricordare davvero, aggiungiamo noi: la gente comune scrive the every, qualsiasi cosa sui social, sì, ma scrive per dimenticare.
Notes
1
Eli Lehmann, “Eli Lehmann’s LiveJournal”, livejournal.com, 19 giugno 2000 (consultato: 16 dicembre 2022).
2
Il termine blog nasce come contrazione di web log. In inglese, log assume nel contesto della rete e dei blog una duplice valenza semantica: da una parte, il significato attinente alla registrazione giornaliera della velocità di una nave, dall’altro la registrazione di un accesso a un sistema informatico. Cfr. Peter Merholz, “Play With Your Words”, peterme.com, 17 maggio 2002 (consultato: 22 novembre 2023).
3
Insieme a Metafilter, Edit This Page, Groksoup, Diaryland e molti altri.
4
“Internet Growth Statistics 1995 to 2022 - the Global Village Online”, internetworldstats.com, n. d. (consultato: 14 dicembre 2022).
5
Jorn Barger, “FAQ: Weblog resources”, The Robot Wisdom pages, 17 agosto 2000 (consultato: 16 dicembre 2022).
6
Dave Winer, “What is a weblog?”, News.UserLand.Com, 6 ottobre 1999 (consultato: 16 dicembre 2022).
7
Rebecca Blood, “Weblogs: A History and Perspective”, rebecca’s pocket, 7 settembre 2000 (consultato: 2 novembre 2011).
8
Rebecca Blood, “Weblogs: A History and Perspective”, rebecca’s pocket, 7 settembre 2000 (consultato: 2 novembre 2011).
9
Fondatori di Pitas e poi Blogger, nonché anni dopo – Williams – di Twitter.
10
In gergo, content management system.
11
Milan Kundera, Il libro del riso e dell’oblio, trad. di Alessandra Mura, Milano, Adelphi, 1991 [1978], pp. 117-118.
12
Paolo Sordi, Bloggo con WordPress dunque sono, Palermo, D. Flaccovio, 2015, pp. 41-66.
13
Scott Rosenberg, Say everything: how blogging began, what it’s becoming, and why it matters, New York, Crown, 2009, p. 130.
14
Ignacio Siles, “Web Technologies of the Self: the Arising of the ‘Blogger’ Identity”, Journal of Computer-Mediated Communication, vol. 17, n° 4, 2012, pp. 408-421.
15
Armando Petrucci, Letteratura italiana: una storia attraverso la scrittura, Roma, Carocci, 2017.
16
Raul Mordenti, “Scrittura della memoria e potere di scrittura (secoli XVI-XVII). Ipotesi sulla scomparsa dei ‘libri di famiglia’”, Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa. Classe di Lettere e Filosofia, serie III, vol. XXIII, n° 2, 1993, pp. 757-758.
17
Armando Petrucci, Letteratura italiana: una storia attraverso la scrittura, Roma, Carocci, 2017, pp. 63-64.
18
Armando Petrucci, Letteratura italiana: una storia attraverso la scrittura, Roma, Carocci, 2017, pp. 31-33.
19
Elizabeth L. Eisenstein, La rivoluzione inavvertita, Bologna, Il Mulino, 1986.
20
Armando Petrucci, Letteratura italiana: una storia attraverso la scrittura, Roma, Carocci, 2017, p. 77.
21
Petrucci ricorda tra gli altri Foscolo, D’Annunzio e Montale: Armando Petrucci, Letteratura italiana: una storia attraverso la scrittura, Roma, Carocci, 2017, pp. 81-90.
22
Angelo Cicchetti e Raul Mordenti, “La scrittura dei libri di famiglia”, in A. Asor Rosa (coord.), Letteratura italiana, vol. III, Le forme del testo, t. II, La prosa, Torino, Einaudi, 1984, pp. 1117-1159.
23
Armando Petrucci, Letteratura italiana: una storia attraverso la scrittura, Roma, Carocci, 2017, pp. 20-21.
24
Raul Mordenti, “Scrittura della memoria e potere di scrittura (secoli XVI-XVII). Ipotesi sulla scomparsa dei ‘libri di famiglia’”, Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa. Classe di Lettere e Filosofia, serie III, vol. XXIII, n° 2, 1993, pp. 741-758. Corsivo nostro.
25
Raul Mordenti, “Scrittura della memoria e potere di scrittura (secoli XVI-XVII). Ipotesi sulla scomparsa dei ‘libri di famiglia’”, Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa. Classe di Lettere e Filosofia, serie III, vol. XXIII, n° 2, 1993, pp. 741-758.
26
Cfr. Laura Busetta, “Intimità sociali: diari, narrazioni e strategie di autorappresentazione digitale”, La Valle dell’Eden, vol. 35, 2019, pp. 65-73.
27
Cfr. Robert Andrews, “9/11: Birth of the Blog”, Wired, 11 settembre 2006 (consultato: 22 ottobre 2021).
28
Center for citizen Media, <http://citmedia.org/blog/> (consultato: 23 novembre 2023).
29
Anthony Hect, “Slapnose: my topic project post for”, Slapnose, 11 settembre 2001 (consultato: 22 ottobre 2021).
30
Teresa Numerico, Domenico Fiormonte e Francesca Tomasi, L’umanista digitale, Bologna, Il Mulino, 2010, pp. 101-117.
31
Dave Eggers, Il Cerchio, Milano, Mondadori, 2014.
32
Conosciute anche con l’acronimo GAFAM che le accorpa in un’unica entità hardware e software dominante a livello globale le economie, le politiche e le culture nazionali. Si veda al proposito il dossier Nella rete di GAFAM, pubblicato sul n° 24 di Testo e Senso: online.
33
José van Dijck, The Culture of Connectivity: A Critical History of Social Media, Oxford, New York, Oxford University Press, 2013, pp. 45ss.
34
Dave Eggers, The Every, Milano, Mondadori, 2022.
35
José van Dijck, Thomas Poell e Martijn De Waal, Platform Society. Valori pubblici e società connessa, Milano, Guerini Scientifica, 2019, p. 27.
36
Dave Eggers, The Every, Milano, Mondadori, 2022, p. 28.
37
È il caso di Instagram, acquistata da Facebook nel 2012 per un miliardo di dollari, e di WhatsApp, acquistata nel 2014 per 19 miliardi di dollari.
38
Anna Lauren Hoffmann, Nicholas Proferes e Michael Zimmer, “‘Making the world more open and connected’: Mark Zuckerberg and the discursive construction of Facebook and its users”, New Media & Society, vol. 20, n° 1, 2018, p. 199-218.
39
Il protocollo software adottato da Facebook per rendere ogni oggetto della web una fonte semanticamente ricca di dati per il grafo sociale dell’applicazione: cfr. The Open Graph Protocol, <https://ogp.me/> (consultato: 23 novembre 2023).
40
Anna Lauren Hoffmann, Nicholas Proferes e Michael Zimmer, “‘Making the world more open and connected’: Mark Zuckerberg and the discursive construction of Facebook and its users”, New Media & Society, vol. 20, n° 1, 2018, p. 199-218.
41
Per i dati degli utenti oggi attivi sulle tre social app di Meta, cfr. “We Are Social e Hootsuite”, Digital 2022 - I dati globali, 26 gennaio 2022 (consultato: 23 novembre 2023).
42
José van Dijck, The Culture of Connectivity: A Critical History of Social Media, Oxford, New York, Oxford University Press, 2013, pp. 54-56.
43
Cfr. Taina Bucher, If...Then: Algorithmic Power and Politics, New York, Oxford University Press, 2018.
44
“Organic Reach on Facebook”, Meta for Business, n. d. (consultato: 22 dicembre 2022).
45
Wayback Machine, <https://web.archive.org/>. Fondato da Brewster Kahle, l’Internet Archive è dal 1996 uno dei tentativi di preservare la memoria dell’umanità, comprese le pagine dei siti web. Cfr. Jonathan Zittrain, “The Internet Is Rotting”, The Atlantic, giugno 2021 (consultato: 10 luglio 2021).
46
Anat Ben-David, “Counter-archiving Facebook”, European Journal of Communication, vol. 35, n° 3, 2020, pp. 249-264.
47
“About the Internet Archive”, Internet Archive, n. d. (consultato: 23 novembre 2023).
Bibliographie
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